Area archeologica di Sant'Eulalia
- Età Tardoantica-Altomedievale, IV sec. d.C. - VIII sec. d.C.
L’area archeologica di Sant’Eulalia si estende per 900 m2 al di sotto della chiesa omonima con sedimenti e strutture che raccontano una storia lunga ventitré secoli: dal IV a.C. agli inizi dell’VIII secolo d.C. senza soluzione di continuità, poi nuovamente dal XIV sino all’epoca attuale.
L’attestazione più antica del sito è ascrivibile all’Età Tardo Punica in riferimento ad una cava a cielo aperto realizzata nel banco di roccia calcarea, utilizzata sino al III sec. a.C. per l’estrazione di blocchi da destinare alla costruzione di opere edilizie. Di tale attività permangono le tracce nei solchi ortogonali ancora visibili, colmati da polvere calcarea nel momento della sua dismissione al fine di ottenere un unico piano. I blocchi vennero inoltre utilizzati per la costruzione di un terrazzamento, di cui permangono tre filari in opera isodoma sulla roccia affiorante, individuato come l’Unità Stratigrafica Muraria più antica del sito. Tale basamento serviva un santuario allora extraurbano atto a sacralizzare un’area di confine, di cui residuano labili tracce: al suo interno sarebbe stata venerata una divinità semita. Ad esso afferiva il thesaurus - unica testimonianza superstite - dotato di un podio e di un pozzetto profondo, ritrovato colmo di terra mista a cenere, frammenti ceramici e svariati reperti metallici, tra cui 307 monete bronzee, databili tra il III secolo a.C. e il periodo romano imperiale. Il thesaurus (fig. 1) venne poi dismesso e abbattuto, cosicché quanto rimaneva delle sue strutture venne obliterato da strati di terra, cenere e calcare sbriciolato.
Da questa colmata provengono frammenti di sigillata africana D, databili tra l’inizio del IV e il principio del V secolo d.C., i quali hanno costituito il terminus post quem di tale abbandono. Questa fase è ascrivibile ad un progetto urbanistico di risistemazione dell’area in riferimento a una strada lastricata (fig. 2) che separa i due grandi complessi edilizi ancora visibili, mentre a un secondo intervento, di poco successivo, è relativa la costruzione di un grande portico (fig. 7).
La via costituita da grandi basoli fu originariamente impiantata con una larghezza pari a 4,20 metri, sviluppata in direzione Nord-Est/Sud-Ovest e caratterizzata da una pendenza verso il mare, che in antico però doveva essere meno scoscesa rispetto a come si presenta attualmente. L’imponenza di tale opera pubblica sottolinea il rilievo dell’area o della stessa via. Di questa sua ampiezza rimane solo un breve tratto residuo a Nord-Est del sito, in quanto, probabilmente verso la fine del VI, venne ristretta per necessità di ulteriori spazi da dedicare a uso privato. Sulla superficie della stessa arteria si aprono tre pozzetti, che in antico dovevano essere funzionali per la manutenzione dei condotti fognari che corrono al di sotto. Questi ultimi hanno sezione quadrangolare e copertura a volta ma sono stati realizzati con due tecniche differenti: in un caso si ha il tratto inferiore scavato nella roccia, mentre quello superiore risulta costituito da grandi lastre calcaree; il secondo mostra le pareti rivestite da mattoni e, sul fondo, uno strato di laterizi livellava il piano (fig. 3).
Coevo alla strada è un ambiente residuo di un’abitazione privata con soglia litica, che presenta ancora i fori per i cardini. L’obliterazione di una parte di essa costituisce attestazione dei mutamenti avvenuti tra il V e il VI secolo relativamente al restringimento della strada. Il setto murario innalzato per delimitare la via è realizzato con la tecnica a telaio, costituita da una serie di elementi lapidei rettilinei infissi a distanze regolari, funzionali alla coesione dei filari disposti negli spazi intermedi. Dal lato opposto della strada si sviluppa un secondo isolato di poco più tardo del primo, articolato in vari ambienti, tra cui un cortile con pozzo e latrina, le due rampe per raggiungere il pianerottolo e almeno un piano superiore. Alle sue spalle si impostano dei vani ben serviti da una cisterna, ai quali nel VI secolo ne vennero aggiunti degli altri nel settore sud-est. Questi nuovi spazi subirono un sopraelevamento del piano pavimentale, sul quale vennero disposte mangiatoie litiche funzionali ad una nuova destinazione d’uso, che sembrerebbe a carattere rurale e quindi rivelatrice del mutamento socio-economico dell’area (fig. 4).
Elemento peculiare del quartiere in un momento successivo al IV secolo doveva essere la porticus, la quale sul lato ovest mostra una fila di colonne ricoperte di stucco su basi marmoree, mentre su quello opposto era chiusa da una doppia struttura muraria. Il porticato doveva rappresentare una monumentale opera pubblica, grandiosa nelle sue dimensioni e nella sua decorazione: largo 8 metri, dalla lunghezza nota per 24, la sua reale estensione è difficilmente determinabile per via delle abitazioni che sovrastano i sedimenti archeologici oltre il perimetro della chiesa; il muro interno era rivestito da intonaco colorato. La struttura era sormontata da una tettoia spiovente in tegole e decorata da antefisse fittili rappresentanti gorgoni e cespi d’acanto, tutte opere di figline romane attive durante la prima età imperiale. Lo spazio interno era pavimentato con lastrine calcaree e marmoree irregolari su un letto di calce dove si apre l’imbocco della cisterna a bottiglia (fig. 6). Essa forniva d’acqua quanti frequentavano la zona: ciò è testimoniato dai frammenti d’anfora rinvenuti depositati sul fondo. Al momento del ritrovamento, la bocca della cisterna (fig. 6) appariva chiusa da un tappo litico, appositamente sistemato per preservare i tesoretti di monete nascosti al suo interno in un momento di pericolo, quando l’area stava lentamente perdendo la sua funzione. Dietro il muro esterno del portico è stato rinvenuto un canale per il deflusso idrico che faceva però parte di un più ampio progetto d’ingegneria idraulica: al setto murario erano inoltre fissate una serie di tegole mammate che consentivano di creare una camera d’aria per l’isolamento dei rivestimenti parietali dall’umidità. Davanti, una serie di altre canalette e un piano ribassato hanno fatto immaginare la presenza di aree destinate a piantumazioni ornamentali a fare da cornice allo stesso colonnato e certamente una canaletta di convoglio delle acque che andava a servire la suddetta riserva idrica.
Il V secolo d.C. è caratterizzato da eventi che modificano l’assetto politico della Sardegna e conseguentemente quello urbanistico dei suoi centri. Già alla fine del secolo precedente, nel 395, l’imperatore Teodosio attuò una bipartizione dell’Impero tra i due suoi figli Onorio e Arcadio, che rispettivamente ottennero la parte occidentale e quella orientale dell’Impero. Tra il 455 e il 467 l’Isola entrò nell’orbita dei domini vandalici, nonostante gli imperatori bizantini, da Valentiniano III (425-455) a Leone I (457-474), a più riprese tentassero di ristabilire l’autorità imperiale su tale territorio. La parte occidentale dell’impero con le sue propaggini divenne sempre più debole e mal difesa, i popoli che pressavano ai suoi confini, come i Vandali, e il caos interno minarono a poco a poco la sua stabilità, determinandone la caduta nel 476 d.C. Tali eventi si riverberarono sulla distribuzione degli spazi urbani: tra IV e V secolo si denota un ripensamento di precedenti strutture, sulle quali ne vennero edificate ex novo delle altre, con destinazioni d’uso differenti, talvolta modificandole per mezzo dell’aggiunta di setti divisori.
Alla luce di tali vicende storiche, la porticus (fig. 7) subì forti trasformazioni dovute alle mutate esigenze della città: dopo la metà del V secolo d.C. fra i rocchi delle colonne vennero inseriti blocchi calcarei a formare un muro continuo per quasi la metà settentrionale della sua lunghezza. Con tale escamotage si ottenne uno spazio chiuso raccordato ad una parte dell’arioso portico e alcuni suoi elementi furono riutilizzati in altre strutture. Nel VI secolo probabilmente venne creata una divisione al suo interno: un setto ortogonale addossato al muro di fondo ebbe fra il materiale che lo costituiva, un rocchio di colonna. È probabile che venissero proprio da questa struttura alcuni blocchi che costituiscono i sette filari regolarmente disposti accanto alla parte più meridionale del portico, quasi ad indicare uno stock pronto per essere caricato o semplicemente riutilizzato. Il porticato, nella sua discesa verso il mare, si sarebbe intersecato con la strada lastricata, se a questa non fosse stato precedentemente modificato il tragitto con una lieve deviazione verso sud. Tale mutamento potrebbe essere riferibile alle modifiche che interessarono lo stesso asse viario, quando la sua importanza venne incrinata forse dalla creazione del limitrofo portico: da questo momento la sua imponenza venne ridimensionata in ampiezza e tracciato.
Durante la metà del VI secolo, la Sardegna diveniva provincia bizantina, grazie alla sconfitta vandalica del 534 da parte di Narsete, generale dell’imperatore Giustiniano (527-565). La difficile convivenza tra l’elemento orientale e le popolazioni interne della Sardegna diede l’opportunità agli Ostrogoti di Totila di giungere nell’Isola e occupare alcuni centri, tra cui Cagliari, tra il 551 e il 552.
Sul finire del VI e l’inizio del VII secolo, la mutata situazione politica determinò un momento di instabilità che si sarebbe protratto per diverso tempo, a cui la città rispondeva con crolli e disfacimenti da un lato, ma ricostruzioni dall’altro. Il centro continuò costantemente la sua vita sulla precedente senza soluzione di continuità. Nell’ambito di tali cambiamenti le strutture vennero spoliate per il recupero del materiale edilizio, come accadde al setto posteriore del portico ed al muro trasversale, che appaiono oggetto di crollo. Nell’area precedentemente occupata dal muro di fondo del colonnato, ormai obliterato da un interro, nel VII secolo venne realizzato un grande ambiente. Uno dei suoi lati brevi, quello meridionale, divenne continuazione del setto, che restringeva e segnava la strada lastricata sul versante occidentale; mentre il lato lungo superiore seguiva il setto perimetrale del thesaurus.
Si data all’VIII secolo la caduta della Prefettura d’Africa ed un conseguente momento di vuoto amministrativo, che si ripercosse nuovamente sui nuclei demici. Il centro di Carales divenne “a macchie”, con zone d’abitato alternate ad altre ruralizzate da progressivi interri; da ciò il lento abbandono dei suoi quartieri periferici, attraverso un processo di destrutturazione conclusosi tra il IX e l’XI secolo, ritrovabile anche in altre città peninsulari. I quartieri orientali della Carales bizantina, tra cui quello di S. Eulalia, subirono tale sorte, a favore di un progressivo accentramento della vita cittadina lontano dal mare.
I materiali rinvenuti nell’area archeologica, al momento non sembrano databili oltre l’inizio dell’VIII secolo e questo dato accerta il mancato utilizzo abitativo del sito in un epoca successiva. Più avanti nel tempo, il quartiere venne utilizzato come discarica o butto; ciò comportò non solo la perdita visiva delle strutture, ma anche quella del ricordo di esse, che vennero colmate e obliterate da strati di polvere, terra e rifiuti tanto da formare metri di stratificazioni.
Dopo circa sette secoli, questo sito venne scelto nuovamente per l’edificazione di un luogo di culto voluto dai Catalano-Aragonesi, ripristinando l’originaria vocazione cultuale dell’area. L’intitolazione alla Santa spagnola viene menzionata dalle fonti come agiotoponimo già nel 1332, mentre l’edificio religioso è noto dal 1365. Quest’ultimo ebbe un primo impianto mononave, probabilmente rispondente alla navata centrale della chiesa soprastante. Dell’antica struttura permangono forse sparuti elementi quali un muro obliquo, visibile nello spigolo sinistro dell’attuale facciata, una sorta di contrafforte che sembra sorreggere la stessa fronte, per poi proseguire sotto la chiesa a livello di fondazione, forse costruito contro terra e calato in una fossa. Tale muro andava a sostenere una struttura a ferro di cavallo alla sua stessa quota: questa potrebbe essere quanto rimane della chiesa originaria a navata unica. Si pone al XVI secolo il rifacimento del medesimo edificio chiesastico che ricevette un ampliamento attraverso l’adozione di una pianta trinavata con accesso a occidente; mentre lo spazio sottostante venne utilizzato come cripta a destinazione funeraria (figg. 8-10).
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